sabato 16 ottobre 2010

La recensione di Angela Galloro su Bottega Scriptamanent

Racconto tra realtà e fantasia,
un’intensa ambientazione noir
e gioco intricato di doppiezza
di Angela Galloro
Un libro avvincente Laruffa editore
dagli scenari indistinti e misteriosi


Il racconto di Fabio Musati obbedisce alle regole del comune racconto noir: sin dall’inizio infatti il lettore sente di piombare in un mondo del quale non riconosce i confini, un labirinto dove tutto quello che succede si collega implicitamente a ciò che viene solo pensato e, nel caso specifico di Musati, anche a come viene narrato. L’autore è consapevole di ciò, come ci dimostra parlando in prima persona, assumendosi cioè la responsabilità di “confondere” il lettore e lasciargli paradossalmente una maggiore libertà interpretativa. Ce lo testimonia la captatio benevolentiae con cui inizia il racconto L’Angelo nero (Laruffa editore, pp. 76, 10,00 €), abbastanza ironica come tutta la narrazione, che si articola con effetti spiazzanti e gioca ad intersecare sotto gli occhi increduli del lettore i piani di una storia scandita da avvenimenti reali e di un racconto fatto di enti ed esistenti che non si sa di quale dimensione facciano parte, se quella dell’autore, del personaggio, o di entrambi.



Atmosfere gotiche e cupe

L’Incipit classico «Tutto cominciò un pomeriggio di ottobre», ci conduce sotto il cielo plumbeo di una grigia Milano, che viene raccontata nel dettaglio contemporaneo delle sue vie, dei negozi, delle librerie, del Duomo. La descrizione della città, presente in ogni momento, interagisce con gli avvenimenti, (sembra preannunciarli circondandoli di un’aura misteriosa), e soprattutto con gli stati d’animo del personaggio dipinti a loro volta di colori cupi, incertezza, grigiore. L’avventura del protagonista inizia proprio in una libreria dove egli assiste alla presentazione di un testo di Filippo Tuena, Il diavolo a Milano, che lo “perseguiterà” anche in seguito, attraverso la particolare coincidenza di una donna che lo legge in metropolitana.

Il protagonista così – questa volta identificabile peraltro con l’autore – Musati, il quale racconta di aver vissuto effettivamente tutto quello che scrive, invia a Tuena un breve racconto, fatto di sagaci battute, di confusione di ruoli e che, secondo l’autore de Il diavolo a Milano, necessita di essere sviluppato in modo più elaborato, secondo l’insegnamento di Pontiggia: «Lavora duramente i tuoi diavoli e non inseguire quelli altrui».

Nel capitolo III, l’io narrante si trova con moglie e figlio ad una mostra al Castello sforzesco, quando all’improvviso il protagonista ha particolari visioni di quadri in movimento, di dipinti che non esistono, o che ricorda diversi da come sono realmente. Il comune denominatore di tali sensoriali esperienze è dato da questo Angelo nero, che aleggia tra i pensieri del personaggio, sotto forma di vento freddo, di persona, di lettore, di avo. Per questo così di getto quest’ultimo inizia la ricerca della propria identità, in senso concreto e storico più che filosofico, inseguendo le sue radici con lo scopo di dare un senso alle storie del presente. Inizia dalla Valsesia, luogo d’origine della sua famiglia, piccolo territorio da sempre misero e poco abitato, alla ricerca di lontani echi del proprio nome, per giungere poi al cimitero monumentale di Milano, dove incontra nuovamente Tuena che egli nomina con un anagramma e che, come una presenza evanescente, sa suggerirgli dove trovare le sue risposte con l’aiuto della ricerca araldica. Altra presenza che resta inspiegabile è quella di una donna che prega al cimitero con un libro nero prima di sparire sotto gli occhi del protagonista, il quale si renderà conto solo dopo, che quello che credeva fosse un libro di preghiere era in realtà Dracula di Bram Stoker. L’Angelo nero continuerà, sotto le sembianze di una donna vestita di scuro, a seguire il protagonista per le strade di una Milano frenetica, fatta di statue di angeli in movimento, come moderni gargoyles dal significato simbolico, fino a quando il nostro personaggio non decide di inseguire la figura femminea dentro Villa Reale. Qui uno strano custode, molto simile a una figura della letteratura gotica tardo ottocentesca, accoglie il protagonista/autore in modo sospetto e a dir poco inquietante, come se già lo conoscesse. Nel salone della villa troviamo Tuena, che, a sua volta, lo “accusa” di essere un suo personaggio e di uscire dunque dalla trama già strutturata, una donna molto simile a quella dipinta nel quadro che aveva attirato l’attenzione di Musati e un impiegato statale che spiega, con pazienza e con l’aiuto di particolari storici, la discendenza di Musati da un antico ceppo di nobili rumeni facenti capo a Vlad III principe di Valacchia, nient’altro che il conte Dracula. Dal racconto viene fuori che la Valsesia fu il loro nascondiglio per molto tempo, una valle buia, dove espiare la vergogna delle proprie edipiche origini maledette e occultare la loro vera natura.

Con ulteriori chiarimenti da parte di Tuena tutto diviene più chiaro e questo complesso e labirintico racconto si chiude come un cerchio doppio.



Il gioco delle identità

In questo racconto ci troviamo di fronte a personaggi che si sovrappongono e si raccontano, che vengono “messi in scena” senza neanche saperlo, autori che agiscono all’interno delle loro stesse storie. Tra Musati e Tuena la corrispondenza avviene tramite pseudonimi, entrambi anagrammi dei rispettivi nomi, Asimut Fobia ed Epifan Pulito, che contengono a loro volta significati forti come il timore e l’apparizione, quasi volessero rappresentare due contemporanei Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Tuena diventa personaggio di Musati e viceversa, l’autore de L’Angelo nero diventa protagonista manovrato da Tuena all’interno della sua stessa storia, si tramuta così in un “personaggio in cerca d’autore”. Pirandelliana è anche la conclusione, con il dipinto della madre di Dracula e l’Angelo nero che ha portato il nostro autore a scoprire la verità e che scompare tra le sue vesti torbide. Proprio a questo punto il Tuena conclude il suo “spettacolo” con una significativa battuta: «Siamo tutti quello che sembriamo, che altro siamo se non quell’illusione dell’essere che diamo agli altri?»

Sparisce così in modo del tutto empatico la distinzione tra l’autore e il suo personaggio, fra ciò che può entrare nella storia e ciò che invece sta fuori, nella vita reale, sia essa assurda o quotidiana.

In questo scherzo di doppi ed alter-ego dunque, l’autore-protagonista sente il bisogno di rintracciare la sua vera essenza, di riconnetterla a quello che c’era prima e a quello che verrà, partendo proprio dal suo cognome, quasi fosse l’unico elemento di cui può ritenersi sicuro. L’Angelo nero lo accompagna, come una presenza inquietante ma necessaria, che istiga al dubbio e alla curiosità, quindi alla ricerca di una stabilità. «In una cultura in cui il movimento è un valore assoluto, la velocità una fede, la frenesia una religione, la gente è sopraffatta da un sotterraneo desiderio di statuarietà.

Essere fermi, irremovibili, piantati in un punto, congelati nella posizione che sentiamo nostra, e dirlo al mondo, apertamente, sfrontatamente, immobilmente».



Una “metaletterarietà”

Musati riflette molto sull’arte dello scrivere e lo fa immerso tra le strade della città, che guarda proprio con occhi da scrittore e con la presunzione che contraddistingue l’inventore di storie. Tutto è lì per lui, tutto è lì per essere conosciuto, scandagliato, descritto e a tratti l’illusione del lettore viene interrotta per lasciar posto alla difficoltà o al piacere dell’autore di descrivere la scena. È un procedimento curioso e parecchio originale, soprattutto se portato avanti con la schiettezza di affermazioni come «Ecco che incappo nel problema di dover tradurre in parole le sensazioni».

Grazie a ciò noi otteniamo riflessioni importanti sull’interpretazione generale del testo: per Musati un libro può avere vita propria, nella mente di autore e lettore, o addirittura più vite a seconda di chi lo legge. Così come un personaggio può esistere da solo, dopo essere stato partorito dall’autore, diventare autonomo e svincolarsi (persino nei suoi tratti somatici) da chi lo aveva descritto. Il problema del «Chi scrive?» ne L’Angelo nero è un binario che corre parallelo all’intreccio vero e proprio, e lo scrivere risulta una lente d’ingrandimento che “pulisce” in qualche modo gli eventi e permette di chiarirli su un’altra dimensione totalmente separata da quella del vissuto.

«Da quando uso gli occhiali sia per scrivere che per leggere, ho l’impressione di calarmi in un liquido più limpido, dove le parole appaiono chiare e immediate, mentre sopra di me il mondo continua il suo torbido movimento».

I racconti nel racconto poi, costituiscono una testimonianza ulteriore della compresenza di piani narrativi che Musati propone: molti di questi non vengono spiegati del tutto, restano solo immaginati, come la vera natura dell’Angelo nero,

con lo scopo (forse) di dare libero sfogo al pensiero del lettore, e in qualche modo di svincolare il racconto dalla pretesa di fornire risposte definitive.



Angela Galloro



(www.bottegascriptamanent.it, anno IV, n. 38, ottobre 2010)